Svanita la visione, mi ritrovai di nuovo dentro al mio corpo, disteso sul letto. Tutto era tornato alla normalità.
Mi era appena successa l’esperienza più sconvolgente della mia vita. Se me l’avessero raccontata il giorno prima, avrei pensato che l’unica reazione sensata sarebbe stata esultare di gioia, correre subito a raccontarla alla mia ragazza, chiamare gli amici più cari, la famiglia, e condividere quell’avvenimento straordinario con il mondo intero.
Invece, in quel momento, non mi venne in mente nulla di tutto ciò. Quell’evento ormai era passato, e adesso c’era già qualcosa di nuovo a cui prestare attenzione.
Provai a muovere il corpo, e mi accorsi di essere ancora paralizzato.
Invece che disperarmi, affrontai la cosa con curiosità. Portai l’attenzione al mio alluce destro e, degno di un personaggio di un film di Tarantino, usando una voce interna, dissi al mio ditone di muoversi.
Lentamente, lo sentii sfregare contro la stoffa delle lenzuola.
Mai, dico mai nella vita, avrei pensato che un paio di lenzuola di cotone potessero donarmi una gioia talmente intensa. A saperlo prima, avrei investito in set di lino invece che sperperare soldi in startup e cercare l’illuminazione su Booking.
E lì iniziai a capire.
Non riuscivo a muovermi perché
stavo usando il corpo per la prima volta.
Ma che cavolo vuol dire?
Eh sì. Per più di trent’anni, quel corpo, che era stato mio compagno di avventure, e che pensavo fosse parte integrante di me, in realtà, non era mio, perché l’aveva usato un altro tizio.
Un altro tizio?
In che senso?
Sì, un altro tizio. Lo stesso che, poco prima, era stato aperto come una cerniera e lasciato lì, sul letto, tutto sgualcito—come le coperte al mattino.
Sembra una cosa assurda, senza alcun senso logico, ma andò proprio così. Sul momento, invece che chiedermi come fosse possibile una cosa del genere, o che diamine stesse succedendo, semplicemente ne presi atto e andai avanti.
Ora che mi trovavo al comando di quell’Evangelion in formato mini, dovevo riscoprire tutto: muovere un dito, alzarmi, camminare, parlare… ero come un bambino appena arrivato nel mondo.
Ma, a differenza di un bambino, che inizia la sua vita con una mente apparentemente vuota, e ancora da sviluppare, io sapevo. Sapevo cos’è un corpo, a cosa servono i piedi, come si parla e come ci si muove… sapevo tutte queste cose in teoria, ma, nella pratica, non le sapevo più fare.
Era tutto nuovo.
Era come se mi fossi reincarnato
in un corpo nuovo, un avatar,
ma senza libretto di istruzioni,
e adesso stava a me scoprire
come usarlo.
Questo unico fatto, in passato, sarebbe stato sufficiente a mandarmi in fissa per giorni. «Oh mio Dio, sono un essere umano! Da dove arrivo? Da un altro universo? Guarda, ho dei piedi! Funzionano? Boh!»
E invece, niente.
Non c’era tempo per contemplazioni esistenziali. Sotto a tutto questo spettacolo—nuovo corpo, nuovo universo, «wow che figata»—stava succedendo qualcosa di ancora più grosso, e cominciavo appena ad accorgermene.
Il Silenzio
Prima che avessi il tempo di stupirmi e adagiarmi sugli allori dell’illuminazione spirituale, mi resi conto che qualcosa era cambiato.
Qualcosa di più importante del mio corpo.
Notai che c’era silenzio.
Ma non era un silenzio normale.
Era un silenzio sconosciuto,
che pareva arrivare da un
altro mondo.
Un silenzio assoluto.
Ascoltai con attenzione quel silenzio, e d’improvviso capii.
Quello che mi aveva sbalordito non era il silenzio fuori, l’assenza di rumori attorno a me. Non era il silenzio della stanza, né quello dell’alba ancora addormentata.
Era il silenzio dentro di me.
Non c’era alcun pensiero. Nessun rumore di fondo, nessun mormorio incessante, nessun intreccio di voci che si affollavano l’una sull’altra per richiamare la mia attenzione.
Dio mio, che sollievo.
Il ronzio della mente,
quel costante chiacchiericcio
di pensieri che mi accompagnava
da sempre, era sparito.
«Uh, devo mandare quella mail al commercialista!»
«…devo ricordarmi di passare al supermercato dopo…»
«Ah! Non ho chiamato la mamma per sapere com’è andata la visita!»
Questo, poi quello, e quell’altro… fin da quando avessi memoria, c’era sempre qualcosa che mi ronzava per la testa. Pensieri sul lavoro, la casa, la famiglia, cose da fare, di ricordarsi, di cui occuparsi, o di cui preoccuparsi.
«Uh, che bella idea! Devo segnarmi questo posto da visitare… oh, il Giappone, che figata il Giappone, non ci sono ancora andato, ma poi perché? È una vita che vorrei vederlo… quand’è la stagione della fioritura dei ciliegi? Ah, come si chiama quella onsen che mi avevano consigliato?»
Bla, bla, bla.
Era come avere un coinquilino disoccupato che, senza pagare l’affitto, vive a casa tua, mangia dal tuo frigorifero, e non fa altro che passare le giornate a parlare incessantemente, ad alta voce, al telefono con qualcuno.
E poi, che dire dei giudizi, a tutto e a tutti!
«Questo mi piace, questo no, questo tizio non mi convince, c’ha la faccia di uno che nasconde qualcosa…»
«Perché questa taglia la fila? Pensa di essere più importante degli altri?»
E infine, i peggiori di tutti, i giudizi su me stesso.
«Vedi che sta cosa non ti è venuta bene? Non sei capace! Non riuscirai mai… i tuoi sogni rimarranno solo dei sogni!»
«Ecco, hai sbagliato, di nuovo! Ma quante volte devi rifare lo stesso errore? Ma sei stupido?»
….e via così. Incessanti, costanti, petulanti, pensieri.
A volte innocui, a volte sognanti, a volte distruttivi, ma sempre, e comunque, voci nella testa che vanno avanti. A volte si prendevano una piccola pausa, giusto per qualche istante, ma neanche sufficiente a prendersi un tè caldo in santa pace.
Solo in quel momento,
in presenza del silenzio
totale e assoluto,
mi resi conto di quanto
quel rumore nella testa
fosse stato assordante.
Ho cercato a lungo una metafora per spiegare come mi sentii in quel momento.
Immagina di sentire un rumore nelle orecchie.
A volte questo rumore è forte e insistente, come la ventola che accendi in cucina per risucchiare il vapore che viene su dai fornelli. A volte è più leggero, come un mormorare di persone quando vai al ristorante. A volte è violento e incessante, come il rumore dei trapani che forano i muri e del metallo che stride sotto i dischi da taglio quando in casa dei vicini partono i lavori di ristrutturazione.
Per quanto ti sforzi di isolarti da questi rumori, non ce la fai. Cambi stanza, chiudi le porte, vai al parco… niente. Ovunque vai, i rumori ti seguono. Dopo un po’ di tempo, non ti accorgi neanche di sentirli, semplicemente fanno parte del tuo mondo, come l’aria che respiri. Perdi la speranza di avere un po’ di pace e ti ci abitui.
Ti ci abitui a tal punto che non ti ricordi neanche come fosse la tua vita prima di questi rumori. Anche sforzandoti, non riesci a immaginare cosa sarebbe una vita senza di loro. Più tempo passa, più diventa semplicemente inimmaginabile, così tanto che non ti poni più neanche la questione. Lo accetti come un fatto della vita.
Poi un giorno, di punto in bianco, i rumori smettono.
Silenzio.
Solo in quel momento
ti rendi finalmente conto
di quanto stavi subendo
una tortura, costantemente,
e tu, per sopravvivere, avevi
imparato a chiamarla normale.
I miei pensieri, questi compagni silenziosi e onnipresenti, mi avevano sempre accompagnato.
Quando mi sentivo solo, sognavo.
Quando avevo un problema, ragionavo.
Quando dovevo studiare o lavorare, mi concentravo.
Nel bene e nel male, avevo sempre un pensiero per la testa.
E poi, quando arrivò il silenzio, capii qualcosa che mi travolse come un tornado.
Io non ero la mia mente.
Per anni ho corso senza sosta, convinto che fosse normale. Poi, accadde qualcosa di straordinario, e mi fermai. Nel silenzio che seguì, compresi che la mia vita non mi apparteneva e che era giunto il momento di cambiare. Condivido questa storia perché è quella che avrei voluto leggere allora, quando barcollavo nel vuoto, senza guida né risposte.
Questo è il Capitolo 5. Qui puoi cominciare il cammino dall’inizio.
Bene Federico, ti ho conosciuto come geniaccio super ambizioso: soldi, business, carriera e fama. mi fa piacere che ora invece stai facendo un percorso introspettivo. in questo testo hai posato l attenzione su due argomenti molto interessanti. noi non siamo il nostro corpo, noi non siamo la nostra mente. Andiamo avanti, ma non facendoci strada con il machete, lasciamoci trasportare dal fiume 😉
Ho sentito che abbiamo condiviso una esperienza comune alla maggior parte dei multipontenziali ipersensibili: corriamo verso una direzione prestabilita ma purtroppo a volte incontriamo “parassiti” e “vampiri” che usano il nostro “agito” per i loro fini funzionali scordandosi che siamo solo elementi di un tutto che è più delle somma delle singole parti….la Natura Terra. Bentrovato nell’Infosfera degli ecologisti interiori